VOLLEY&ATLETICA I perché di Juantorena

 Foto gentilmente concesse da Fidal-Colombo, Rieti Meeting2013/Emiliano Grillotti, Leades-Sebastiano De Acutis. Sopra l’autografo e il saluto di Alberto Juantorena

Stringo la mano ad Alberto Juantorena a distanza di trentadue anni. Non amo scrivere in prima persona ma il contesto e l’occasione fanno parte di quelle eccezioni quasi dovute. Conobbi “El Caballo”, come il fuoriclasse cubano dell’atletica era chiamato, in occasione della Coppa del Mondo di atletica che Roma ospitò nel 1981. Per fare l’intervista invitò nella sua stanza d’albergo l’allora ragazzo “dubat”, come allora venivano chiamati i giornalisti, o meglio gli aspiranti giornalisti che lavoravano da abusivi tollerati nelle redazioni dei giornali, coprendo i servizi più disparati, occupandosi se non di tutto, di molto. Era l’orario del riposo ma Alberto con i giornalisti, almeno quelli italiani, ha sempre avuto un rapporto di gentilezza e disponibilità e anche in quell’occasione, negli ultimi anni della sua formidabile carriera, si comportò con grande professionalità. Era già una leggenda dell’atletica, unico a vincere due medaglie d’oro alle Olimpiadi, di Montreal 1976, doppiando 400 e 800. Un’intervista a tu per tu con un campione come lui, senza passare per uffici stampa o sponsor, chiedendogliela direttamente intercettandolo dopo il pranzo. Oggi sarebbe impensabile ma allora, in quella atletica, era possibile, se non quasi normale.
Ecco perchè è stato umanamente bello riallacciare il filo dei ricordi incontrandolo a Rieti, dove Sandro Giovannelli lo ha chiamato insieme con Tommie Smith per onorare la memoria di Pietro Mennea.
Alberto non si è spostato di un millimetro dalla sua condizione di fervente sostenitore della politica cubana, amico di Fidel Castro a cui dedicava ogni successo in pista. Io ho spesso criticato la condotta di Cuba, del governo, del Comitato Olimpico e delle federazioni cubane in merito alle sanzioni cui sottopongono gli atleti che lasciano l’Isola per andare a vivere e giocare all’estero. Resto del parere che Cuba dovrebbe avere il coraggio di rivedere certi suoi atteggiamenti, nel suo stesso interesse. Tuttavia ascoltare la risposta di Alberto alla scomoda (nel clima festoso che c’era ieri al Comune di Rieti) domanda sull’argomento, mi ha fatto capire quanto radicate siano certe convinzioni, quanto diverso dal nostro sia il modo di pensare di Juantorena riguardo Cuba e le sue abitudini.
Ho chiesto il perchè di tanta severità, citando i quattro anni di squalifica inflitti al giovanissimo Leon. Sapevo già il tenore della risposta ma era mio dovere chiedere.
“Chi lascia la Nazionale cubana, chi lascia Cuba lo fa per scelta personale. Ma a Cuba diciamo che con si morde la mano di chi ti dà da mangiare, di chi ti ha fatto studiare, ti ha messo nelle condizioni di fare sport e di crescere, di essere curato. A Cuba ci sono 78.000 bravissimi insegnanti di educazione fisica per 11 milioni di persone. Abbiamo medici bravissimi E’ il nostro segreto. Lo sport è un antidoto contro la droga, l’emarginazione, la prostituzione. Facciamo tanto con poco, anche con niente. La ricchezza più importante è la nostra passione. L’amore per la camiseta”
Sopra potete vedere l’autografo e il saluto di Alberto Juantorena. Da Cuba mi aspetterei segnali diversi. Però mi rendo anche conto che per un cubano come Alberto è più difficile. Non condivido pienamente il suo pensiero, ma ho il dovere di cercare di comprenderlo, in relazione alla sua storia, alla sua vita di ragazzo che sognava di emulare Enrique Figuerola, lo sprinter cubano che vinse medaglie d’argento alle Olimpiadi di Tokyo e Mexico City e tanti ori nelle manifestazioni americane.
Quando ricordo ad Alberto quell’intervista all’Hilton sorride, mi stringe la mano e ribadisce che per lui la stampa è sempre stata importante: “Bisogna stare sempre informati, leggere, capire. Non tapparsi le orecchie”.
Poco prima aveva ribadito la sua posizione sulle guerre, rispondendo ad una domanda sui rischi di conflitto per le vicende della Siria: “Usare la forza è sempre sbagliato. Vi invito a pensare a come reagiremmo se dei missili cominciassero a cadere tra le nostre case. Se gente come noi che siamo qui in questa sala perdesse un figlio, un amico, a causa della guerra”

Leandro De Sanctis

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