VOLLEY Soli racconta Ravenna, pochi soldi, lavoro e idee

La Bunge Ravenna è stata la rivelazione di questo primo mese e mezzo di SuperLega. Ravenna, una piazza che per la pallavolo ha significato tanto, dagli albori di questo sport all’epoca d’oro, quando all’improvviso, dopo il boom della Nazionale di Julio Velasco, grandi capitali sbarcarono sotto rete, dalla Fininvest berlusconiana al Gruppo Ferruzzi gardiniano. 

C’era una volta Ravenna allora, che nell’era del boom della pallavolo vinceva lo scudetto (1991) e la Coppa dei Campioni (tre volte consecutive, dal 1992 al 1994). Peppone Brusi dirigente, Daniele Ricci in panchina, fuoriclasse assoluti in campo, da Vullo a Gardini, alla leggendaria coppia statunitense Kiraly-Timmons, le punte di uno squadrone. Il tempo avvolge anche i ricordi più belli, la pallavolo a Ravenna ha conosciuto tempi difficili ma ora c’è un altra squadra giallorossa (discendente diretta per via delle fusione tra Robur Costa e Porto) che meriterebbe di risvegliare l’antica passione e di richiamare al PalaDeAndré una adeguata cornice di pubblico.
La Bunge Ravenna è al quarto posto della SuperLega, beffardamente sconfitta, domenica sera a Verona, da un ace sporco, palla che tocca il nastro e si spegne sul flex, imprendibile e pone fine alla partita più lunga della storia del campionato nell’era Rally PointSistem: due ore e 42 minuti.
Sulla panchina di Ravenna ora c’è Fabio Soli, 38enne modenese di Formigine, voluto dal direttore generale Marco Bonitta, che lo aveva voluto come vice ct nella Nazionale femminile.
Soli, come è nato il suo Ravenna?
«Assecondando le esigenze del budget, uno dei più esigui della SuperLega, come l’anno scorso. Contiamo sulla fiducia, sull’appoggio della Abbiamo puntato su situazioni tecniche ben definite: giocatori d’esperienza che vengono da campionati meno celebri e che vogliono rilanciarsi, magari accettando contratti ridotti. O giovani di talento, ancora inespressi, scommettendo, noi e loro, sulle qualità. Da aprile, quando cade l’ultima palla del campionato, lavoriamo senza sosta al video, guardiamo tonnellate di giocatori, le caratteristiche. Sembra che in estate non facciamo nulla invece lavoriamo in ufficio dalla mattina al tardo pomeriggio. Con l’ausilio dei nostri contatti. Se riesci a individuare giocatori giusti, ti cambia la stagione. Penso sia il grande valore di un club medio piccolo: non rinunciare ad un proprio staff, da Bonitta a tutti gli assistenti, la qualità del lavoro fa si che il talento venga individuato e sviuppato. È l’unico modo e siamo riusciti a portare in squadra giocatori che da un punto vista tecnico e caratteriale erano congrui alle nostre necessità. E che si sono trovati bene»
Orduna riciclato dopo le amarezze modenesi, Marechal, Poglajen, Buchegger: la spina dorsale del nuovo Ravenna?
«E non dimentichiamo gli italiani. Orduna l’abbiamo aspettato e inseguito tutta l’estate, avendo perso Luca Spirito per esigenze di mercato. Orduna ha sempre dovuto mordere il freno e guadagnarsi ogni centimetro. Sa gestire la squadra, è uno dei valori aggiunti. Poglajen non è giovanissimo ma ha la fiducia di Velasco in Argentina, Buchegger alterna cose stratosferiche a moenti di difficoltà».
Quali sono le vostre ambizioni, possibile un inserimento nella top four, approfittando della partenza lenta di Trento?
«Non credo nella top four, la storia dimostra che i grandi team alla fine prima o poi risalgono, Trento piano piano crescerà, troverà la quadratura. Tante altre squadre hanno budget importanti e da anni investono per rompere le scatole alle quattro grandi: penso a Piacenza, Vibo, anche Milano. Credo che dobbiamo restare con i piedi per terra e goderci il momento e un posto che credo non sia il nostro. Non stupiamoci perchè abbiamo meritato ciò che abbiamo, ma non dovremo stupirci se verranno passi falsi o altri correranno più di noi»
Ormai Ravenna non può più contare sul fattore sorpresa.
«Prima dell’inizio della partita di Verona ho parlato proprio di questo. Il quarto posto ce lo siamo guadagnati e meritati col lavoro, con il gioco. Una squadra come Verona ha preparato la partita come se fosse scontro diretto, e noi abbiamo sempre provato a giocarcela con chiunque. Finora ci stiamo riuscendo, sono arrivati buoni risultati e ciò ci dà responsabilità. Gli avversari ci portano rispetto e ci obbligano a giocare ancora più intensamente. Sì, l’effetto sorpresa è decisamente finito».
Cosa ricorda dell’epoca d’oro di Ravenna?
«Allora cominciavo a giocare, a Ravenna c’erano i grandi investimenti, i grandissimi campioni, come Vullo, che da palleggiatore ho sempre considerato grandissimo. Era un regista moderno e lo sarebbe tuttora. E’ ancora il mio preferito, insieme con Ricardo e Bruno, che ho avuto la fortuna di vedere da vicino a Modena»
L’esperienza con la Nazionale femminile cosa le ha lasciato?
«In un percorso in cui non si è mai sazi di apprendere, è stata la ciliegina sulla torta del mio percorso: ho lavorato con allenatori come Prandi, Daniele Bagnoli, Castellani, Bonitta. Avevo sempre vissuto il volley maschile: l’esperienza con le donne in una realtà affascinante e arricchente, ha accresciuto il mio bagaglio»
Cosa le hanno lasciato gli allenatori che ha avuto accanto, se deve ricordare una cosa di ognuno di loro?
«Silvano Prandi il grande rispetto che incuteva nei suoi giocatori, era il professore. Direi il suo rigore, la precisione nell’esprimersi. Il rispetto delle posizioni, dei ruoli. Dicevano che era passato di moda ma lui ha continuato a vincere all’estero.
Daniele Bagnoli è…Daniele Bagnoli. E’ la persona che ho visto più di tutte interpretare il volley dieci minuti prima che succedesse. In campo metteva in atto cose che non avrei mai pensato. I cambi, l’interpretazione tattica. Una mente pallavolistica un passo avanti a tutti.
Daniel Castellani ha un’impronta moderna, il gestore di gruppo di alto livello.  Marco Bonitta, una grande mentalità vincente, l’attitudine a volgere lo sguardo alla vittoria facendo scelte difficili, il suo grande valore aggiunto, e il saper trasformare situazioni negative in positive».
Che tipo di allenatore pensa di essere?
«Sono un giovane con tanta strada da percorrere per imparare soprattutto a gestire i ragazzi di oggi, in un mondo che cambia in fretta. Ragazzi che non sono più quelli che frequentavo io da giocatore, sono cambiate le esigenze, da un anno al’altro. Spendo tempo per informarmi, per capire come relazionarmi. Se devi far crescere giovani, bisogna colmare le lacune, ampliare le competenze, coinvolgerli in un progetto anche al di fuori dall’ambiente. Non si può più essere monotematici, pensare solo alla pallavolo».
Immaginava che sarebbe diventato allenatore?
«Lo pensavo ma non credevo di allenare così presto, di bruciare le tappe in fretta: ho avuto fortuna. La fortuna è importante, me lo diceva spesso Daniele Bagnoli, che mi è rimasto nel cuore: conoscendolo ho capito come mai abbia vinto così tanto».
I valori per lei sono importanti?
«Ho origini umili di cui sono orgoglioso, mio papà agricoltore, mamma casalinga, terzo di quattro fratelli. Credo che i legami familiari siano una delle cose più importanti. Ringrazio la mia famiglia che me li ha trasmessi. Ogni volta che posso li vado a trovare. E mi piace dedicare il mio tempo libero a mia moglie, è bello avere qualcuno con cui condividere i momenti difficili ma anche i momenti di gioia»

* parte di questa intervista è stata pubblicata sul Corriere dello Sport-Stadio di martedì 14 novembre 2017

Leandro De Sanctis

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