Bullismo, c’è chi non si arrende e c’è chi soccombe

Bullismo, c’è chi non si arrende e c’è chi soccombe. Due opere premiate nell’ambito del Concorso Raccontaci Volley Scuola, legato all’edizione 2021 di Volley Scuola Trofeo Acea simboleggiano e sintetizzano al meglio il focus di una piaga sociale e umana che non accenna ad attenuarsi. Figlia dell’ignoranza, della mancanza di cultura e dell’assenza di sensibilità che un mondo puntato sempre solo sul proprio ombelico, sui propri interessi piuttosto che su valori comuni e condivisi. Bullismo e cyberbullismo: i ragazzi non hanno la forza, il carattere, l’esperienza, per farsi scivolare addosso insulti e vessazioni. Spesso la violenza avviene a scuola, spesso nell’incuranza di presidi e docenti (non certo, do per scontato, gli operatori che accompagnano con passione i ragazzi nella partecipazione a Volley Scuola).
Sul quotidiano La Repubblica di ieri l’ultima bestialità di attualità, avvenuta e denunciata al Villaggio Prenestino.
Titolo: Bulli contro ragazzo autistico ” Ora Matteo ha paura a uscire”. Sommario: Insultato perché obeso e colpito con uova.
I livelli di folle e assurda ferocia non sono quantificabili. Ed è inutile chiedersi il perché. Di sicuro certi vigliacchi comportamenti vanno denunciati e puniti senza indugi, mai sottovalutati. Chi non sa stare al mondo secondo regole umane e civili, deve impararlo.
I testi di Diego Marino e Amabel Zicoschi raccontano le due facce della medaglia. Perché al bullismo si può e si deve reagire. Ma c’è chi da solo non ce la fa, e finisce per arrendersi e soccombere.

C’è chi non si arrende

Quando il cellulare vibra, lo prendi in mano e lo squadri con un misto di ansia e ribrezzo. Unanotifica da instagram t’informa del commento alquanto sprezzante lasciato con moltasemplicità alla triste foto da te postata: tu, con il fisico in mostra, davanti ad uno specchio conalcuni adesivi di hello kitty. Il commento riporta un insulto semplice e banale: sfigato, carinigli adesivi, che femminuccia. Mamma ti aveva detto di cancellare quell’applicazione satanica,ma non ne avevi voluto sapere, perciò il risultato è stato che, dopo averne visto una foto similesul profilo di un altro ragazzo, ne avevi postato una anche tu, sperando in un riscatto sociale.Una lacrima sottile è subito seppellita dall’indice, che poi si strofina forte sulla maglietta,mentre il pollice dell’altra mano sblocca lo smartphone. Apri l’applicazione satanica. Cliccasull’avatar in basso a destra. Clicca sull’ultimo post. Cancellalo. Non sei tu che fai questo. È latua testa, ma la tua testa non appartiene più a te, non più ormai. Poi sopraggiunge un’idea,un’idea forse folle, ma a pensarci del tutto logica: la mamma prima soffriva d’ansia e unopsichiatra le aveva prescritto alcune pasticche ansiolitiche, forse ne erano rimaste. Ti alzi dalletto sul quale eri stravaccato e, portandoti dietro il cellulare, ti dirigi in bagno. La portascorrevole si apre silenziosa e sei dentro. Posi il telefono sul bordo del lavandino e inizi arovistare nell’armadietto rosso del bagno.Eccole. Xanax. Quante ne serviranno? Non lo sai, le rovesci tutte per terra, sono poco più dimezza dozzina. Le conti. Otto. Basteranno. Prendendo un bicchiere, lo riempi d’acqua, ti siedisul gabinetto e fai un bel respiro. Sei pronto. Quando il telefono vibra nuovamente. Seiindeciso se guardare o no. Alla fine guardi, a tuo rischio e pericolo. Ti ha scritto la ragazzacarina, quella che ti aveva invitato a giocare a pallavolo un po’ di tempo fa. Ti scrive dall’applicazione satanica e ti sta invitando di nuovo. Ci sono tutti, vieni? Sei indeciso, due desideri contrastanti ti assaltano. Alla fine pensi: magari dopo.
Diego Marino
(Liceo Albertelli, 2C
Docente Mirella Casagrande)

E c’è chi soccombe

Ciao, sono Cecilia; state per leggere la mia storia, la mia vita; leggete attentamente però, perché questa è una storia comune. Iniziò tutto con l’arrivo del primo giorno delle medie; ero una bambina di undici anni felice, pronta a fare nuove amicizie, la scuola mi piaceva. Tentai fin da subito di avvicinarmi ai miei compagni di classe, ma per un motivo a me sconosciuto nessuno di loro sembrava interessato a ricambiare. “Sono i primi giorni anche per loro”. pensai. “Saranno timidi”. Ero convinta delle mie supposizioni, non accettavo che il problema fossi io. Passavano i giorni e nessuno mi parlava, mi arrivavano solo risate. “Chissà per cosa stanno ridendo”, non avevo abbastanza coraggio per girarmi. Dovette passare un mese prima che le mie orecchie sentissero una voce che mi si rivolgeva: era un bambino, perché a undici anni eravamo tutti bambini, lo riconobbi. Alessio. Era solito stare in fondo alla classe, se lui parlava gli altri tacevano, se lui rideva gli altri ridevano. Ero sorpresa. Capitemi, mai mi sarei aspettata che proprio lui venisse a parlarmi. La sua faccia era attraversata da un ghigno, almeno per me sorrideva; disse una frase strana. “Attenta balena, potresti sfondare la sedia”. Pur avendo undici anni sapevo bene come erano fatte le balene ma non trovavo il nesso con la mia persona. Gli altri intanto risero, forse era una barzelletta; imbarazzata sorrisi. Ingenua. Si, ero decisamente ingenua. Da quell’episodio trascorsero altri due anni durante i quali ogni volta che mi veniva rivolta la parola le frasi contenevano “battute”. Risate. L’unico elemento che mi portai dietro dalle medie. I professori non dicevano nulla. Se loro tacevano perché mai avrei dovuto far intervenire i miei genitori? A vedere il mio esame ci furono solo parenti, nessun compagno, nessun amico; d’altronde non avevo amici. Scelsi il liceo scientifico, mi piaceva la scienza, il mio sogno era diventare medico. Ero emozionata per la nuova scuola, speravo di fare conoscenze. Alessio capito nella mia stessa classe con i suoi due amici, più che amici sembravano guardie del corpo. Appena mi vide fece una strana faccia. Ero impallidita io; per tre anni mi aveva bullizzata. Quell’estate avevo infatti compreso che le sue non erano battute leggere, il suo era bullismo. Eppure tacevo. Mi darete della codarda, forse avete ragione. Mi avevano definita in tanti modi, non sapevo più che cosa ero: stupida, grassa, brutta, silenziosa, strana. Dicevano che somigliavo ad una mucca e ad un ippopotamo. Bizzarro vero? Per me non lo era più. Torniamo però al liceo. Conobbi Agata, un raggio di sole nelle tenebre. La descriverei esattamente così. Ragazza esuberante, il suo colore era decisamente il giallo, sempre felice e positiva; mi difendeva da Alessio e dalla sua comitiva. Eravamo gli esatti opposti ma mi faceva bene alla vita.
A novembre del secondo anno dovette trasferirsi. Quando me lo disse piansi. Senza di lei ero vulnerabile. Chi mi avrebbe difesa? Da sola ero persa. Ammetto che sentii una fitta al cuore, forse il mio affetto nei suoi confronti andava oltre all’amicizia; lo capì pure Alessio. Iniziarono ad insultarmi ogni giorno. Non erano leggeri con le parole. Posso dirvi che la lingua può essere un’arma tagliente quanto un coltello. Mi trafissero molte volte; mi menarono addirittura. Ai miei cari dissi che ero caduta. Poi continuarono le parole; non me la sento di ripetere ogni termine, ma vi dico che erano molto originali. Arrivai a maggio convinta che ci fosse qualcosa di sbagliato in me. Ero sbagliata. In effetti a gli altri non riservavano questa cattiveria. Si ero io il problema. L’estate la passai isolata da tutti, sola nel mio silenzio. I miei genitori erano preoccupati ma non ci badai più di tanto. Non era così che a undici anni avevo visto la mia adolescenza, il mio futuro. La sera prima del ritorno a scuola piansi fino ad addormentarmi. Non reggevo più le cattiverie. Mi sentivo le spalle pesanti. La colpa era la mia. “Cambierà tutto”. Illusa, ecco cos’ero. La mia mente venne modellata dalle azioni subite e iniziò a maturare l’idea che alla fine la vita era peggio della morte. Sarei stata tranquilla. In pace. Valeva la pena respirare? Per i miei pensieri no. Successe una sera che stavo a casa da sola. Fu veloce. Di doloroso solo la consapevolezza di aver perso. Non avevo resistito. Per i miei genitori solo un biglietto; poche parole ma affettuose, sono sempre stata brava con le parole a differenza dei miei bulli. Il mio pensiero per un momento andò a loro: chissà se si sarebbero sentiti in colpa; magari no, persino io vedevo il problema in me. La mia vita si spense. Forse fu la scelta migliore. Finalmente non soffrivo più.
Questa è la storia della mia vita, di come per colpa delle cattiverie sia finita. Spero vi rendiate conto che le storie simili alla mia sono troppe; storie tristi che potrebbero però ottenere un bel finale. Ma questo dovete scriverlo voi. Ciao, sono Cecilia e mi sono uccisa.
Amabel Zicoschi
(2D Liceo Majorana)

Leandro De Sanctis

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