Le parole negate nello sport: imputati club, atleti, giornalisti

Le parole negate nello sport: imputati club, atleti, giornalisti. Un tema che mi è particolarmente caro, anche se in senso negativo. Un fondo di Alessandro Barbano apparso lunedi 6 giugno 2022 sul Corriere dello Sport-Stadio, dal titolo “Se il calcio compra le parole”, ha riportato a galla una problematica sempre più diffusa, a vari livelli e non solo nel calcio. Nonostante serva tanto ai giornali quanto a club e atleti, un rapporto corretto è diventato sempre più una rarità, tassello non marginale dell’imbarbarimento culturale che non poteva non contagiare calcio e sport in generale.
Mi è parsa molto interessante e utile al dibattito la testimonianza scritta da Alberto Polverosi e pubblicata sempre sul Corriere dello Sport-Stadio. Alberto ha ricordato episodi di un passato che oggi va valutato con amara nostalgia e successivi momenti che già catapultavano su altri piani la degenerazione dei rapporti, il mancato rispetto dei ruoli.
Paradossalmente si potrebbe dire che la maleducazione (di club, atleti, dirigenti) è lecita ma l’accettazione passiva (dei giornalisti, ma soprattutto dei direttori e dei “capi” in generale) diventa corresponsabilità, con un concorso di colpa che ha portato rapidamente alla fine di questa professione. Ecco perché mi ha fatto particolarmente piacere la presa di posizione, pur non facendo nomi, del quotidiano sportivo romano per il quale ho scritto e lavorato per quasi quarant’anni.
Il problema non riguarda solo il calcio. Le peggiori abitudini si imparano in fretta e altri sport che ho frequentato hanno dimostrato a vari livelli di non essere immuni. L’aspetto deteriore di questo distorto rapporto (gli uffici stampa dovrebbero essere supporto di chi lavora nei giornali, e in molti caso lo sono, non un ostacolo censorio) andrebbe combattuto con ribellioni pratiche, tipo quella che sotto potrete leggere raccontata da Alberto Polverosi.
Si dimentica che il giornalista è al servizio del lettore e risponde al suo datore di lavoro, che è soggetto diverso dalle società, gli atleti, i procuratori, i club, le federazioni, le leghe.
Il giornalista dovrebbe sempre mantenere la giusta distanza, nella consapevolezza che è solo uno strumento per chi ha interesse ad utilizzare il suo lavoro e nulla più. E gli strumenti si usano fin quando servono. Dare e pretendere lo stesso rispetto è l’unico modo per mantenere credibilità professionale, nella consapevolezza di come gira il mondo oggi. Lo sport troppo spesso non è più sport, un qualcosa in cui contano solo i soldi, gli interessi, il potere, come molte vicende recenti hanno confermato. Chi l’ha detto che bisogna ingoiare ogni rospo nel nome di un’intervista ottenuta?
Senza scomodare Vasco Rossi, bisognerebbe imparare a dire no a chi ci dice no, senza cedere per pigrizia o ignavia ai capricci della società o del campioncino di turno. Negli ultimi decenni le prime picconate alla dignità della professione sono arrivate dalla scelta di privilegiare le tv. In tv ci si concede e si parla più volentieri che con i giornali, L’esempio Olimpiadi è chiarissimo: fino al loro inizio contano i giornali, da quando si gareggia contano solo le tv e ai giornali restano le briciole, frutto di lavoro più impossibile che problematico.

Le parole negate | Richieste figlie dell’ignoranza

La pigrizia e la prevedibilità, spesso figlie dell’ignoranza in materia quando si parla di sport extra calcio, genera sempre e solo le solite richieste. Il già noto, il campione reiterato anche quando non ha nulla da dire. Guai a dare spazio a storie e volti nuovi, personaggi non ancora emersi. Nel contesto si paga anche la mancanza di compattezza della categoria, nella quale spesso si è disposti a distaccarsi da prese di posizione comuni, per fare i fenomeni, per avere quell’intervista che gli altri non hanno. Pensate se in risposta a certi atteggiamenti, a certi muri, la stampa decidesse compatta di passare oltre, di accantonare, di non inseguire chi non vuole concedersi nemmeno fugacemente.
La bravura di un atleta non sempre è accompagnata dallo stesso livello di disponibilità professionale (e si perché nella professionalità di un campione sportivo c’è anche il rapporto con i media). E quando l’atleta diventa campione, spesso mal consigliato, perde la sua unicità, la sua personalità, affidandosi ad altre strutture che potremmo definire di disinformazione. Dicono loro se, quando e con chi parlare, da chi farsi trovare per dieci minuti o per una sola domanda. Fin quando l’atleta non è emerso, è lui a proporsi per articoli o dialoghi, anche con una certa frequenza. Una volta avanzato nel suo status, sarà il suo management a decidere per lui, anche azzerando rapporti consolidati. Se ci fosse un minimo di dignità professionale, si dovrebbe ripagare con lo stesso disinteresse, Ma pochi hanno gli attributi per farlo, E la problematica è talmente ampia che servirebbe troppo tempo per approfondire i vari aspetti in un unico articolo.

Le parole negate | Non solo calcio, esempi negativi in altri sport

Alla fine si potrebbe osservare che certe società, certi organismi, si prendono troppo sul serio, dimenticando che se non ci fossero gli appassionati che seguono, sui giornali, negli impianti e in tv, i loro guadagni sarebbero ben diversi. E dimenticando i minimi doveri professionali, come succede a chi non si degna di parlare in zona mista, nemmeno quando indossa la maglia azzurra della Nazionale. Le regole ci sarebbero, ma valgono poco se non sono accompagnate dalla forza di applicarle, anche nei confronti di atleti o atlete imprescindibili.
Se dovessi citare anche esempi personali di situazioni poco simpatiche se non sgradevoli, avrei una ricca aneddotica.
Dalla società che non vuole far intervistare il giovane palleggiatore emergente “sennò si monta la testa”, al tecnico che accusa di fare “il male della società” scrivendo che un atleta non avrebbe giocato perché infortunato. Sorvolando sulle lettere calunniose (anche vigliacche, si può dire?) ai direttori dopo articoli sgraditi o solo per aver ospitato dichiarazioni di altri ma giudicate scomode. Agli inviti a “farmi i fatti miei” anche da chi poco prima era ricorso al mio aiuto e alle miei opinioni. La risposta migliore è sempre stata quella di tener conto e ignorare. Gli sport che seguivo offrivano infinite alternative: perché dedicare spazio e tempo a certi personaggi? Una bella croce e si parla d’altro, di altri.
Ma il giornalismo si è avviato alla scomparsa rinunciando ad esercitare la professione con autorevolezza: dalle interviste in ginocchio al sorvolare, come se niente fosse, su domande che non hanno risposte, Chi si intervista ha il diritto di dire ciò che ritiene opportuno, ma se racconta balle, imprecisioni o bugie, le sue parole andrebbero chiosate.
Non è per questo che il giornalismo, in questo caso sportivo, è morto. Ma è anche per questo.

Le parole negate | La testimonianza di Alberto Polverosi sul Corriere dello Sport-Stadio

Caro condirettore,
   ho letto il tuo pezzo “Se il calcio compra le parole” e uno come me,
con quasi mezzo secolo di “Stadio” e poi di “Corriere dello Sport” alle
spalle, non può che condividerlo. Mi piacerebbe che quanto hai scritto
fosse la base per una discussione più profonda sulla nostra categoria,
sui nostri diritti e sui nostri doveri perché, per come la penso, se
quelle parole ora sono “comprate” e non più diffuse liberamente, la
responsabilità è anche e soprattutto nostra, della nostra categoria. Mi
limito al terreno che ho frequentato, quello sportivo. Ho conosciuto
due mondi diversi. Del primo racconto solo questo piccolo episodio. Nel
1980 la Fiorentina doveva andare in trasferta a Catanzaro. L’aeroporto
di Lamezia era chiuso, sarebbe atterrata a Reggio Calabria e da lì
avrebbe proseguito in pullman fino al ritiro di Soverato. L’allenatore
era Giancarlo De Sisti, campione d’Italia da capitano dei viola,
campione d’Europa e vice campione del mondo, io ero collaboratore di
questo giornale, un nano nei suoi confronti, e dovevo seguire la
Fiorentina in quella trasferta. Alla vigilia della partenza mi sono
fatto coraggio e gli ho chiesto: “Picchio, me lo daresti un passaggio
sul vostro pullman fino a Soverato?“. E lui, in romanesco: “Aho, e che
te lasciamo a piedi?“.
   Ho conosciuto questo mondo e poi mi sono ritrovato, quasi senza
accorgermene (ecco la mia colpa, la mia responsabilità) in un altro
pianeta. E’ cambiato in fretta, è vero, ma non così in fretta da non
accorgersene. Anni dopo, sempre a Firenze, la Fiorentina dell’epoca di
Cecchi Gori decise per un silenzio-stampa senza ragione, solo per
qualche critica. Poi un giorno, mentre la squadra si stava allenando a
Coverciano, il direttore sportivo disse ai giornalisti che potevano
fare le interviste. Eravamo sette o otto, non di più, ci eravamo già
messi d’accordo: “Se volete parlare, fatelo fra voi. A noi non
interessa parlare con voi”. Una reazione di pancia? Può darsi. Ma non
una reazione supina. Ed è successo qualcosa di simile anche in tempi
più recenti, a Milano. Un giorno un famoso allenatore spintonò e
apostrofò in malo modo un collega che stava facendo delle interviste ai
bordi del pullman della squadra, dopo una gara in notturna. La
successiva conferenza stampa dello stesso allenatore venne disertata da
tutti i giornalisti tranne uno, Giulio Mola, che voglio citare perché
la prima domanda che gli pose fu questa: “Lei non si vergogna di quello
che ha fatto?“. Per la cronaca, l’allenatore patteggiò una pena con la
Lega.
   Mentre il calcio stava facendo pagare le sue parole alla stampa, troppe
volte siamo stati accondiscendenti, troppe volte ci siamo resi (spero
inconsapevoli) megafoni di uffici stampa che non possono avere i nostri
fini professionali. Anche su questo dovremmo fare una riflessione. I
dirigenti dell’ufficio stampa sono pagati dalla propria società per
fare gli interessi dell’azienda, i giornalisti sono pagati dal proprio
editore per fare l’interesse del giornale, della tv, della radio, del
sito. E questi interessi non collimano, anzi, molto spesso sono in
netto contrasto fra loro. Non apparteniamo alla stessa categoria.
   Dovremmo e potremmo fare di più, perché il prossimo passo, se andiamo
avanti così, sarà la censura. Forse è l’età, probabilmente il
rincoglionimento, ma certe volte, a guardare quanto accade nel mondo
dell’informazione mi prende una gran tristezza, perché so che la colpa
è anche mia.
   Alberto Polverosi
Sul Corriere dello Sport Stadio di martedì 7 giugno 2022

Leandro De Sanctis

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