Il potere del cane | Recensione

Il potere del cane | Recensione
Montana, 1925, il grande ranch dei fratelli Burbank è il teatro della storia. Un “finto” western perché in realtà, al di là del contesto e del paesaggio, il dramma che Jane Campion ha trasformato in film avrebbe potuto essere ambientato altrove. Quello che conta è l’essenza dei personaggi, le loro pulsioni nascoste o manifeste.
Sono anni di passaggio e i due fratelli incarnano le differenti mentalità: da una parte Phil (Benedict Cumberbatch) fisicamente più attraente e sicuro di sé, ancorato al passato e a quello che si è sempre fatto, incluso il lavarsi poco anche se si sta a tavola con ospiti. Dall’altra George (Jesse Plemons) paffutello e per questo irriso dal fratello, più raffinato e di animo sensibile, curato nel vestire, proiettato nel futuro con attenzione per il prossimo e il desiderio di metter su famiglia. Cosa che avviene quando la vedova Rose (Kirsten Dunst) accetta di sposarlo e va a vivere nel ranch dei fratelli, portandosi dietro il problematico figlio Peter (Kodi Smith McPhee).
Il potere del cane è uno di quei film che rende incompiuto e problematico il parlarne se si vuole evitare di raccontarlo, o spoilerare come si suo dire, perché l’analisi non può prescindere da certe sfumature e dallo sviluppo della vicenda, finale incluso. La Campion mette in scena un film in cui contano i dettagli, che illustrano un’epoca di cambiamento fin dall’inizio. Una tavola apparecchiata con cura, un pianoforte per dare un seguito musicale e di allegria al pasto, perché ci si sta staccando dall’epopea del West e si cerca anche altro.
Gli sguardi, gli impacci, le inquietudini, le delicatezze e le cattiverie danno forma al film della Campion.
Mantenendo il proposito di non rivelare, è chiaro come il personaggio Phil, apparentemente e sguaiatamente omofobo e in realtà intimamente legato al ricordo del suo mentore Bronco Henry del quale conserva altarino e fazzoletto a sancire inequivocabilmente i suoi sentimenti intimi e nascosti. Phil è personaggio ruvido, ostico, senza sconti né premure per la moglie del fratello che affoga nell’alcol i suoi malesseri e per il figlio Peter, strano un bel po’ e lontano dai cliché del West. Ancorché dimostri cinismo e sadismo quando uccide e squarta un coniglietto domestico, o quando con tenacia va a recuperare pelle da bestiame ucciso dall’antrace.
L’epilogo darà contorni adeguati alle personalità di Phil (aprirsi significa anche esporsi) e del giovane Peter, dimostrando una volta di più che spesso non tutto è come sembra e che la ruvidità comportamentale può essere superata dalla crudeltà repressa fino a quando non la si libera per raggiungere uno scopo.
Un bel film, girato in Nuova Zelanda, intenso, psicanalitico, denso di significati e ben interpretato, nonostante il cast non sia alla fine quello che la regista aveva scelto.

Il significato del titolo

Il potere del cane è citato nel versetto 22:20, contenuto nel libro dei Salmi:  “Salva l’anima dalla spada, salva il cuore dal potere del cane“. Ovvero l’inconscio. Le pulsioni inconsapevoli che caratterizzano il comportamento.

Il potere del cane, la scheda

IL POTERE DEL CANE – 2021, Regno Unito, Nuova Zelanda, Canada, Australia. Durata 126 minuti. Tratto dal romanzo omonimo di Thomas Savage (1967)
Regia: Jane Campion.
Interpreti: Benedict Cumberbatch, Jersse Plemons, Kirsten Dunst, Kodi Smith McPhee, Thomasin McKenzie, Gemevieve Lemon, Keith Carradine, Frances Conroy,
* visto in versione originale con sottotitoli

Leandro De Sanctis

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