ATLETICA Addio Carlo Monti, sprinter e giornalista con stile e umanità

 Foto d’archivio della Fidal. Carlo Monti è il secondo da sinistra.

Testo parzialmente pubblicato sul Corriere dello Sport di venerdì 8 aprile 2016. 
Carlo Monti, medaglia di bronzo 
con la 4×100 all’Olimpiade di Londra 1948
 

L’atletica piange la scomparsa di un altro dei suoi campioni: all’età di 96 anni Carlo Monti, azzurro dello sprint negli anni’40, è morto ieri a Milano, dove era nato il 24 marzo 1920. Stamane alle ore 11 si svolgeranno i funerali. Campione approdato all’atletica quasi per caso, ebbe la carriera tarpata dalla guerra, che lo costrinse a quattro anni di inattività, rubandogli due Olimpiadi. Riuscì a partecipare ai Giochi di Londra, nel 1948, dove vinse la medaglia di bronzo con la staffetta 4×100. L’aneddotica di quella giornata olimpica vuole che Monti e gli altri staffettisti azzurri (Tito, Perucconi e Siddi) furono inizialmente premiati con l’argento, per via della squalifica della Gran Bretagna. Lasciarono Londra con l’argento al collo, ma vennero raggiunti dall’allora segretario generale della Fidal quando erano già in treno, con la comunicazione che i britannici erano stati riammessi: loro avrebbero dovuto riconsegnare l’argento e “accontentarsi” del bronzo.
    Agli Europei di Oslo, due anni prima, era riuscito a salire sul podio dei 100 aggiudicandosi la medaglia di bronzo dopo un viaggio lunghissimo ed avventuroso durante il quale non riuscì nemmeno a mangiare regolarmente, dormendo in brandine senza materasso. «Mi presentai a Oslo che ero l’ombra di un atleta – scrisse Carlo – Muscoli duri, scarsa concentrazione psichica, carica nervosa quasi a zero. Non era venuto nemmeno il massaggiatore. Allora si correva tutto in un giorno: secondo in batteria, superai la semifinale e in finale ero primo fino agli 80 metri, poi le gambe cedettero, terzo in 10”7».
    Galeotta una gara ai tempi della scuola (già allora fondamentale “avviamento” allo sport), Carlo Monti, che era laureato in chimica, si era proiettato nella realtà dei 100 metri, che reputava la corsa più bella del mondo. Per lui l’atletica era quella fettuccia rossa di pista, che lo aveva emozionato fin da quando si presentò battendo il milanese Orazio Mariani che era il numero uno dello sprint. Vinse l’ultimo dei suoi otto titoli italiani (4 sui 100, 4 sui 200) nel ‘49, quando già il lavoro presso una ditta di oli lubrificanti lo assorbiva parecchio. Ma non lasciò l’atletica, continuando a seguirla come giornalista, scrivendo, frequentando sia i piccoli impianti che i grandi eventi dell’atletica internazionale. Anche Alfio Giomi, presidente Fidal, lo ha ricordato: «Sarà per sempre l’uomo simbolo di un’atletica elegante, figlia di una generazione risorta dalla tempesta della Seconda Guerra Mondiale. Le sue medaglie sono già storia del nostro sport, il suo modo di fare garbato e discreto l’impronta di uno stile che non potrà mai essere d’altri tempi». 
Già, il suo stile inconfondibile di gentleman riservato, mai invadente. La battuta sempre pronta, riusciva a fare squadra anche con i più giovani colleghi: chiedeva, si informava, con umiltà e garbo, senza far pesare la sua esperienza, il suo sapere. 
Mi chiamava “maestro”, da quando seppe che ero stato un insegnante di scuola elementare per qualche anno. Per me era già un onore che si ricordasse del sottoscritto, giovanissimo collega ma senza il suo glorioso passato agonistico. E quando si concludeva la manifestazione che entrambi seguivamo, l’abbraccio di saluto era sempre accompagnato dal confessarsi il piacere di aver avuto modo, una volta di più, di condividere qualche momento, qualche risata, qualche racconto.

Leandro De Sanctis

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