LIBRI Io Khaled vendo uomini e sono innocente

La copertina del libro scritto da Francesca Mannocchi

Io Khaled vendo uomini e sono innocente, un libro di Francesca Mannocchi. 208 pagine, Einaudi Stile Libero, 17 euro.

L’Espresso ha pubblicato un estratto del capitolo Come va giù una cosa che muore. Tratto dal libro di Francesca Mannocchi. Prendetevi cinque minuti tutti per voi, per la vostra natura umana, per leggere, riflettere, capire la verità al di là delle menzogne che vi vengono propinate sui social e in tv. Non vergognatevi, inoltrandovi nel racconto, se dai vostri occhi cominceranno a scendere lacrime. Significa che siete ancora esseri umani, che sapete pensare con la vostra testa e che avete ancora un cervello, un cuore capace di pulsare per ciò che dovrebbe contare più di ogni altra cosa, più di un tweet bugiardo, di un voto alle elezioni: la vita umana, in qualsiasi parte del mondo si nasca.
Non bisogna lasciare che gli italiani credano che in questo disastrato Paese l’ignoranza, la disumanità e l’incapacità mascherata dalle grida social, abbiano già definitivamente trionfato.

http://espresso.repubblica.it/attualita/2019/01/29/news/io-trafficante-di-uomini-1.330940

Me ne vado giù. Affondo.
La senti la mia voce, signor Khaled, ti ricordi chi sono? Ti ricordi chi ero? Sono Fouzieh, la siriana di Homs. Mi hai mandata a morire. Stringo mio figlio tra le braccia, amore mio, tieniti a me. Siamo partiti da così poco, signor Khaled. Un’ora forse? Forse meno. La vedo la riva mentre la barca affonda, la vedo. Quelli sotto in stiva gridano, gli manca l’aria. Aiutateci, aiutateci. Gridano. Entra acqua e manca aria, entra acqua e manca aria. E il motore che si spegne e dall’acqua intorno odore di benzina, e la barca che va giù con noi dentro e le famiglie nella stiva che gridano e la barca si piega e chi ha forza si aggrappa alla parte che ancora galleggia e chi non può si tuffa in acqua e il barcone si piega di più e più si piega e più gridano dalla stiva. «Mamma ho paura, mamma ho paura». Tutti i bambini, decine di bambini insieme, «Mamma ho paura». E mi tuffo anche io e ho solo buio intorno signor Khaled, e ci sono corpi che mi tirano giù, mi spingono, si aggrappano a me, che stringo mio figlio. […]

Tutti pensano a salvare se stessi, nessuno salva nessun altro in mare, signor Khaled.

Bilal si tiene stretto stretto al mio collo e mi dice: «Mamma moriremo», e io dico: «No, Bilal, no, ce la faremo mamma te lo promette, stringiti forte». E strillo «Aiuto», strillo «Aiuto» e non c’è nessuno intorno, bevo acqua salata e anche Bilal beve acqua salata e scivolo giù e riemergo e lui strilla.

Poi lo stringo e lui si calma e mi dice: «Mamma voglio dormire, mamma ho sonno, mamma sono stanco, aiutami». Allora io urlo il suo nome per tenerlo sveglio, urlo «Bilal Bilal» e non lo lascio dormire signor Khaled, perché chi dorme muore, gli do schiaffi sulle guance e lo tiro verso l’alto ma non ho più forza. Aspetta figlio mio, aspetta a riva dormirai. Sii forte Bilal, a riva dormirai. Maledetti aiutateci, salvate i bambini. La sua testa va giù e torna su per prendere fiato e non ho più forza, non ho più fiato. Mi aggrappo a qualcosa, qualcosa che ci tiri su dall’acqua. Cerco dei pezzi di legno, pezzi di barca, un’asse, una tavola qualcosa cui appoggiarmi. Forse lo salvo Bilal, forse salvo almeno lui. Muovo le mani, sono confusa, ho paura, vedo delle sfere, cosa sono? Sono boe? Aggrappiamoci, dai Bilal ci avviciniamo e ci aggrappiamo. No. Non sono sfere sono teste. Sono morti. E Bilal allora si tiene al mio collo ma io non ce la faccio, non ho più forza, ho solo onde intorno e ci sbattono di qua e di là. Bilal chiude gli occhi, anche io chiudo gli occhi. Non ce la faccio Bilal, mamma non sente più le gambe. Non sento più le gambe, piccolo mio. I muscoli mi stanno abbandonando. Quanto tempo è passato Bilal? Un’ora un giorno.

Perché siamo qui, Bilal, dov’è tuo padre? Dove sono i tuoi fratelli. Le bombe. Casa, casa non c’è più. La mamma ti salverà, la mamma ti porta al sicuro. C’è il mare di mezzo e poi c’è la vita nuova che ti ha promesso papà, i libri, una camera calda, niente bombe, nessuna fuga. E un giocattolo sì. Mamma non ce la fa più Bilal, il mare diventa nero. Il mare non è vasto, il mare si stringe, il mare è un tunnel.

Siamo caduti in un cunicolo, Bilal, e nessuno ci tira fuori. Strillano ancora, strillano tutti. «Aiuto, aiuto». Mamma non ha più fiato. Non riesco a strillare Bilal, Bilal no, non scivolare amore mio reggiti a me, reggiti a me non andare giù, se vai giù la mamma ti segue, ti segue per sempre. Siamo andati giù, signor Khaled, come va giù una cosa che muore.

***

Smettila di torturarmi il sonno, crudele di una siriana. Non ne posso più di sentirti gridare «Aiuto, aiuto» e «Salvatemi, salvatemi». Sono tre anni che gridi aiuto, sono stanco della tua voce che mi opprime e mi perseguita.

Sei morta, donna. Morta. Affogata nel mare libico, signora Fouzieh. Lo sapevi che in mare si può morire. Lo sanno tutti che in mare si può morire. Ve l’avevamo detto: cinquecento dollari in più e c’è il salvagente per tutti. «Troppo costoso, – ha detto tuo marito, – non abbiamo tutti questi soldi. Daccene almeno due per noi e poi proteggiamo i bambini. Abbassa il prezzo, Khaled».
Di chi è la colpa allora, signora Fouzieh? Noi ve l’avevamo detto: «Queste sono le tariffe, più paghi meno rischi». Quindi smettila e fammi dormire. Siete morti in tanti, non mi pento. Ho fatto quello che dovevo fare. Hai dimenticato come imploravate di partire?
Non ti ho ucciso io.
Non sei morta per colpa mia.

***

Era novembre, e il mare a novembre è di malumore. I cento siriani e gli eritrei volevano partire per forza. I loro intermediari, i siriani, continuavano a chiamarci: forza, ragazzi, fateli partire. Il tempo reggerà, organizzate questa barca. […]

I bambini nel capannone piangevano, si sentivano le voci dall’esterno. Siamo entrati e c’era questa ragazzina, Sham, che non parlava, gridava e basta. Un unico suono, un grido e il fratello che diceva: «Ha paura del buio, qui dentro è sempre buio». Si lamentavano della puzza, c’era un bagno solo che non era proprio un bagno, era un buco sul pavimento. E con l’acqua a singhiozzo. E quel tipo di Aleppo, il dottore, che continuava a protestare: «Dobbiamo lavarci, questa è una prigione, è peggio di una cella. E i bambini, come facciamo con i bambini». Chissà che pensava? Scappava dalla guerra e pensava di venire qui in vacanza.

E poi si è avvicinata la donna, Fouzieh, la siriana di Homs. «Mia figlia piange, qui dentro è sempre buio, – mi ha detto. – Mia figlia ha paura del buio. Bilal ha paura dell’acqua. Non sanno nuotare. Signor Khaled, per favore, vi abbiamo dato tutti i nostri risparmi. Dateci I salvagenti. Quando arriveremo in Europa le manderemo dei soldi in più, ora non ne abbiamo. La prego, Allah la proteggerà, lei protegga noi, signor Khaled. I salvagenti per favore, almeno per i bambini. Bilal ha paura dell’acqua». «Niente da fare, donna, le regole sono uguali per tutti. Husen non cede di un passo. Se pagate ci sono i salvagenti. Se non pagate, niente».
«Stai tranquilla, Fouzieh – ho detto – tanto voi avete i posti in prima classe. Ponte. Sarete i primi a vedere Lampedusa». […]

***

Abbiamo camminato con le torce fino alla riva, c’erano il gruppo di negri, quelli senza un soldo, e gli eritrei e i nostri siriani. In tutto trecentocinquanta. I gommoni erano pronti per fare avanti e indietro dalla riva fino al barcone di legno. Diciotto metri di barca, era blu con una striscia bianca e sottile. Il pescatore ha voluto centocinquantamila dinari per quel barcone. Almeno così aveva detto Husen. Aveva detto che era un buon prezzo, che ne avremmo caricati trecento, era merce buona e poi era un carico ricco, c’erano cento siriani. Aveva detto che valeva i centocinquantamila dinari anche se era ridotto male. Abbiamo caricato i negri, quelli vanno in stiva. C’erano un po’ di bengalesi e pachistani. «In stiva pure quelli. Metteteli stretti i negri in stiva, se non entrano fateli stare in piedi, – diceva Husen. – Devono entrarci tutti». Poi toccava agli eritrei e ai siriani. Si lamentavano appena toccavano l’acqua.

«Ma come? Dobbiamo entrare in mare a piedi, siamo zuppi, i bambini sono zuppi, è freddo, è notte, il vento». E Husen gli ha detto di mollare tutti gli zaini, «Niente borse, – ha detto. – Niente buste di plastica, niente sacchi, lasciate tutto a riva». Le donne piangevano: «I mie documenti, i documenti dei miei figli. Ci sono i telefoni, lasciateci un po’ di soldi e i telefoni almeno». E Husen si innervosiva. «Niente, tutto a riva». «Lasciateci qualcosa da mangiare, acqua per favore, acqua per il viaggio. Dobbiamo mangiare». «Chi ha pagato per mangiare, mangerà», disse Husen.

E poi la siriana, Fouzieh, ha cominciato a strillare verso il marito che non voleva più partire. «Non voglio, Mahmoud, non parto. Ho paura, Mahmoud, è troppo pericoloso, non partiamo, ti prego. Restiamo qui. I bambini. Pensa ai bambini». E il marito diceva: «Abbiamo pagato, Fouzieh, non possiamo restare qui. Dobbiamo andare, fatti forza, fatti coraggio, dobbiamo andare».

E quella gridava che il barcone no, lei sul barcone non ci sarebbe salita, che li avevamo tenuti nel bosco, lontani, di proposito per non fargli vedere il barcone, che se l’avessero visto non sarebbero partiti mai, non avrebbero pagato mai. «Ridateci i soldi, ho paura». Continuava a strillare e più strillava più si agitavano anche le altre donne e i bambini strillavano più di lei e allora Husen ha sparato in aria. «Salite, senza rompere le palle e pure di corsa. Avanti, zaini a terra, e tutti sui gommoni». E Fouzieh ha buttato a terra quello che aveva con sé, si è tolta le scarpe, ha smesso di piagnucolare, e camminava con gli altri siriani. Con i bambini in braccio, l’acqua che arrivava alla pancia, erano zuppi prima di salire sui gommoni e poi via, mezzo miglio più in là, sulla barca. Ci abbiamo messo due ore a caricarli tutti, Husen ha lasciato il satellitare, il Thuraya che avevano pagato i siriani e il Gps a un tunisino, un pescatore, uno che voleva arrivare in Italia e ha detto: «Ok, faccio il comandante, ma fammi viaggiare gratis, Husen», e Husen ha detto: «Sì, conosce il mare. Se va male tanto arrestano lui, il capitano». E rideva. E il tunisino sì, più o meno conosceva il mare, parlava inglese, il tunisino capitano. «Se siete in pericolo chiami questo numero e dai la posizione che leggi sul Gps». E quello si è guardato intorno, ha visto il barcone carico di gente e guardava le donne e guardava i bambini e gli ha detto: «Signor Husen, io non posso, non sono capace, ho sbagliato signor Husen, non sono capace», e Husen l’ha preso per il collo e gli ha spinto in gola la canna della pistola. «Guidi questa cazzo di barca. E chiami il numero dei soccorsi». […]

Squilla il telefono, è il tunisino: «Signor Husen, signor Husen imbarchiamo acqua, aiutateci signor Husen. Aiutateci. La barca si muove, prima da una parte e poi dall’altra. C’è acqua, strillano. Moriremo».

E Husen ha cominciato a strillare anche lui. «Porco di un pescatore ci ha dato una barca di legno marcio, porco di un pescatore domani lo ammazzo. Così mi rovino la reputazione». Sentivo gridare il tunisino dal telefono: «Affondiamo, signor Husen, entra acqua, quelli sotto prendono a pugni la barca, che faccio? Quelli in stiva muoiono. Che faccio? Aiutateci». Allora Husen ha detto: «Salite sul gommone, andiamo a vedere», e siamo saliti tutti e otto sullo Zodiac e più ci muovevamo più le onde diventavano alte e più ci muovevamo più il vento diventava forte e sentivamo le persone strillare e disperarsi. […]

La barca ondeggiava, si inclinava sulla destra. Gli uomini si sporgevano dalla fiancata inclinata e sentivamo I corpi rimbombare cadendo dalla prua in acqua. E altri uomini assaltare quelli vicino per strappargli i salvagenti, non c’erano salvagenti per tutti. Se ce l’hai sopravvivi, sennò affoghi. Qualcuno strappava i salvagenti ai bambini.
Tutti pensano a salvare se stessi, nessuno salva nessun altro in mare. Non ho mai creduto al mare, quando eravamo bambini ci insegnavano a non fidarci di tre cose: i cammelli, i negri e il mare. Il cammello non dimentica mai e non perdona mai, i negri sono fatti con un quarto di cervello, testardi e ingrati, e il mare. Nonno diceva che il mare ha bisogno di anime e le chiede. E se le porta via. Le braccia si alzavano dall’acqua, le teste apparivano e scomparivano. Braccia che si alzavano ancora e poi solo le dita, teste che scomparivano e non riapparivano più. «Avvicinati, avvicinati di più», mi ha detto Husen, così ho fatto e una donna dall’acqua gridava prendete almeno mio figlio, almeno il bambino. Mi è sembrato che fosse la voce di Fouzieh, la siriana di Homs. E mi è venuto in mente che all’ospedale da campo, durante la rivoluzione, non ci curavamo delle urla dei feriti. Murad una volta mi disse: «Finché urlano sono vivi. Non ti curare di chi urla, prenditi cura di chi sta zitto». E allora mi ripetevo: Finché urlano sono vivi, finché urlano sono vivi. Poi hanno smesso di urlare. E Husen ha detto «Torniamo a riva».
E così ho fatto. Mentre le teste andavano giù come una cosa che muore.

La copertina del numero in edicola de L’Espresso

Leandro De Sanctis

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