ALBUM La mia Argentina (nel 2002)

Inauguro con questo articolo una nuova rubrica, album, che ripropone testi scritti in passato ma per vari motivi ancora oggi non privi di interesse. Undici anni dopo, noi italiani ci avviamo a vivere se non una crisi identica, quanto meno un periodo che non sappiamo come, dove e se sfocerà in qualcosa di simile. Purtroppo.
Questo servizio è legato alla mia trasferta in Argentina, in occasione dei Mondiali di pallavolo del 2002.

Tre settimane in Argentina per un Mondiale di volley senza gloria e per scoprire di avere un altro Paese nel cuore. Non è la prima crisi economica che l’Argentina si trova ad affrontare, ma è l’ultima e sembra la peggiore. C’è la realtà dei grandi alberghi e dei negozi di lusso frequentati soltanto da stranieri, illusione che la vita scorra come prima. Ma le storie che riempiono le pagine dei giornali, che ti raccontano i tassisti, che leggi negli occhi dei bambini e degli anziani, sono lo specchio di un Paese che ha smesso di sognare, impreca contro i suoi politici corrotti, più con rassegnazione che con rabbia.
Certo, la realtà metropolitana di Buenos Aires è più dura e drammatica che nell’entroterra. Nella piccola Santa Fe o a Cordoba colonia a maggioranza italiana la crisi si avverte in maniera diversa. C’è un velo di normalità nelle isole pedonali zeppe di negozi, la gente passeggia avanti e indietro ma la maggior parte delle botteghe è senza clienti. I prezzi sono rimasti quelli del peso equiparato al dollaro, e dunque all’euro. In realtà il costo per il turista è ridotto ad un terzo. Per fare un esempio: un cd musicale nuovo costa 23 pesos, poco meno di 8 euro. Davanti alle vetrine dei centri hi-fi, grappoli di persone sbirciano lo spettacolo dei film su dvd, che non potranno permettersi. Quando gli schermi trasmettono calcio, il pubblico non manca mai, perche lo sport è visibile solo nelle tv a pagamento ed ormai non è più alla portata di tutti. «Nemmeno la nostra Argentina abbiamo potuto vedere. Un mondiale fatto in casa trasmesso da una pay tv, per giunta americana» , lamentava la gente nei giorni della pallavolo mondiale, quando Milinkovic e Conte hanno fatto sognare per qualche settimana l’Argentina.
Avenida Florida, meta obbligata di ogni turista desideroso di shopping, è una specie di isola che non c’è più. Un viale delle illusioni che è diventato oggetto proibito del desiderio per la maggior parte della popolazione, che si sforza di vivere con dignità la grande crisi. C’è ancora chi può permettersi la cena del sabato sera in un bel ristorante alla Recoleta, ed il palazzo del cinema brulica di giovani e di normalità. Però le cifre snocciolate giorno dopo giorno, come un bollettino di guerra, dicono che il 31% della popolazione guadagna meno di 500 pesos al mese, che il tetto ai prelievi (800 pesos mensili) non blocca certo i ricchi, i quali hanno provveduto a portare subito all’estero i loro malloppi. Il 70% dei bambini argentini vive ormai sotto la soglia della povertà: è capitato che una scuola chiudesse perchè i bambini non avevano le scarpe per andare a studiare. Nella famiglie il cibo è diventato un lusso, si va in missione per trovare la bottega che offre prezzi più convenienti, si vendono soprattutto farina, riso, dulce de leche, che possono trasformarsi in pietanze varie. Soffrono le banche, il cui volume monetario trattato è sceso dagli oltre settanta milioni di dollari a poco meno di tremila, così duecento succursali sono state chiuse. Furti e criminalità sono cresciuti di pari passo col peggiorare della situazione: un sequestro ogni trentasei ore, sette omicidi al giorno di media nella grande Buenos Aires, atti vandalici (mille telefoni pubblici rotti e non riparati). La struggente malinconia del tango, diventa così la dolorosa colonna sonora di un’Argentina malata, che non sa come curarsi. L’Argentina che mi resta nel cuore, piange le lacrime di un tassista che non ha i soldi per curare le moglie italiana malata di cancro.

* pubblicato nel 2002 sul Corriere dello Sport

Leandro De Sanctis

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