Nanni Moretti e Il sol dell’avvenire, l’opinione di Daniele Poto

Nanni Moretti e Il sol dell’avvenire, l’opinione di Daniele Poto. Ospito questo testo su Visto dal basso pur non condividendo tutte le affermazioni espresse dall’amico Daniele.
Solo per chiarire ai lettori, non mi classifico tra i fedelissimi morettiani, per utilizzare la sua espressione, perché tendo a valutare i film senza preconcetti e soprattutto perché non sono fedelissimo di nessuno in generale, nella vita, specialmente di chi non conosco e non potrei mai conoscere.
Penso anche che pure nel cinema, come nello sport che abbiamo entrambi frequentato, valga l’esercizio legittimo della critica e dell’andare controcorrente (che poi è quello che spesso si fa in questo sito). Si possono non condividere o giudicare addirittura sbagliate certe scelte, ma visto che il film è del regista e lo firma, è perfino ovvio che lo faccia come vuole lui. E come per tutte le cose, il giudizio è questione di opinioni e punti di vista e ognuno si esprime con il proprio stile. La recensione del film è stata pubblicata su Visto dal basso il 24 aprile ed è linkata in coda a questo articolo.

di Daniele Poto*

L’ultimo film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire, sta suscitando un eco e un dibattito non solo mediatico nettamente superiore al valore intrinseco/estetico del film. La potenziale platea è tradizionalmente divisi in fedelissimi morettiani e altrettanto fedelissimi detrattori, quasi due categorie dello spirito che fanno fatica a confrontarsi. Vorrei collocarmi in un terzo schieramento: laico, volterriano, disincantato. Giudicando Moretti un figlio dei tempi, un regista estroso personalissimo e movimentista, ma escludendo che sia un maestro del cinema, un imperdibile forgiatore di capolavori autentici che resteranno nella storia dello stesso.

Generazionalmente tanto coetaneo da averne seguito il percorso ancora prima di Io sono autarchico, perfettamente oggettivo nel riconoscerne pregi e difetti, nel catalogarne tassonomie e ipocondrie. Oggi, rivedendo su Rai play il confronto nel programma Match (arbitro l’indimenticabile Alberto Arbasino) viene naturale considerare vincitore della sfida Mario Monicelli. Nanni Moretti sbraitava contro gli antichi maestri che gli sbarravano la strada. Ma la sua retorica gli potrebbe essere tranquillamente ribaltata addosso oggi, quando è lui ad occupare la scena, con la sua popolarità, la sua solida base produttiva, lo zoccolo duro di attori affezionati, sempre pronti a rispondere alla sua chiamata. Come Silvio Orlando che, alla domanda se sia contento di girare film con Moretti ha così testualmente risposto: “Sono contento di rispondere ai suoi inviti. Ma quando non mi chiama è anche meglio, non mi dispiace”.
Il Sol dell’avvenire mette in piazza vecchie e nuove idiosincrasie. Le donne con i sabot, le serie tivù di Netflix che hanno cloroformizzato il mondo nella pandemia, la violenza delle pellicole di serie B, l’ortodossia comunista. Un film che sa di testamento estetico e non spirituale quando nella scena finale alla Pellizza da Volpedo (**) lungo i Fori Imperiali (gli elefanti come ritorno al passato, segno di decadenza?) sfilano tutti i suoi attori feticcio compresi quelli più in ombra come Fabio Traversa e Dario Cantarelli (unica assenza di rilievo Laura Morante e c’è sicuramente un motivo). Rispetto alle ultime prove recitative Moretti se la cava un po’ meglio. In Tre Piani e nel Colibrì non c’era mimesi. Moretti recita come parla e dunque per i morettiani va benissimo, per gli altri un po’ meno.
Curioso che per gli altri attori pretenda venti ciak mentre per se stesso è ”Buona la prima”. Tono simil-recititativo lento, triste, auto-referenziale e didascalico che fa pari con l’outing dell’ultimo film ovvero la dipendenza trentennale dagli psicofarmaci.
Accettiamo volentieri i riferimenti all’affezionata madre scomparsa, al plaid di colori estremi con cui si è coperto in vari film, il facile ricorso alla buona musica italiana per collegare le varie scene. Quella che preferiamo è il ballo di gruppo un po’ folle e immotivato che accompagna le note di Vorrei vederti danzare. Ci risulta insulsa invece la lunga sequenza in cui palleggia. Budavari ora non è un pallanotista (reale, non inventato) ma un circo. Se qualcuno pensa alle invasioni russe attuali faccia pure anche se il film sceneggia in completa libertà, sorridendo alla fine a Trotsky, facendoci ricordare contemporaneamente che è stato ucciso da un avo della famiglia De Sica e che Moretti era anche quello che profetizzava: “Con questi dirigenti la sinistra non vincerà mai!”. Difatti Veltroni scrive gialli leggeri, D’Alema fa il mediatore d’affari, Bertinotti omaggia la Roma mondana.

*Daniele Poto giornalista e scrittore.
(**) il pittore italiano autore del celebre Il quarto stato, custodito nel Museo del Novecento a Milano.

Leandro De Sanctis

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