VOLLEY Caro Velasco, bentornato

Carlo Lisi e Julio Velasco ad Atene, 8 ottobre 1994, Mondiali di pallavolo Foto Mauro De Sanctis

Caro Velasco, bentornato e grazie di tutto.
Per chi come me iniziò a seguire professionalmente la pallavolo nel 1989, Julio Velasco ha rappresentato la scoperta dell’America, nel senso che sceglierlo per guidare la Nazionale dopo i quattro scudetti vinti a Modena, fu la più azzeccata delle decisioni che siano mai state prese dalla Fipav, che aveva allora l’avvocato Manlio Fidenzio come presidente e Gianfranco Briani nel ruolo di segretario.

La storia del volley ora sa che nel 1989 iniziò il boom dell’Italia sotto rete: a Stoccolma gli azzurri vincero i campionati Europei, l’anno successivo in Brasile il primo dei tre Mondiali consecutivi. Con l’avvento di Julio commissario tecnico, nacque la generazione di fenomeni, che sotto forma di canzone era farina degli Stadio e pallavolisticamente parlando fu narrata da tutti i giornali.

Difficile spiegare oggi, nell’era dei social e della deregulation delle opinioni via web (che in fretta diventano troppo spesso insulti) cosa rappresentò il tecnico e il personaggio Velasco in relazione ai media e alla pallavolo stessa. Nel momento in cui Julio torna ad allenare un club italiano, torna sulla panchina di Modena in SuperLega, inevitabile il riaffiorare dei ricordi, inevitabilmente velati di nostalgia. Un po’ perché ormai tutto è passato, un po’ perché la pallavolo italiana e la Nazionale, hanno nel frattempo collezionato altre occasioni perdute e molto, se non tutto, sembra tornato all’epoca della preistoria a causa di scelte politiche sbagliate, di sconfinata presunzione, di miopia strategica e della modestia che vivacchia in ruoli chiave del movimento.

Julio Velasco riuscì a sdoganare uno sport minore come la pallavolo a suon di vittorie, accompagnate però dalla nascita del personaggio Velasco, quel personaggio che molti anni dopo Julio avrebbe “accusato” di vivere al di fuori di lui. Un boom di risultati e medaglie, ma anche un boom mediatico, perchè Julio non diceva mai cose banali, non si limitava a parlare di pallavolo, evocando piuttosto immaginifiche metafore, pensieri e parole colte che il tempo non ha cancellato.
Divenne anche molto impegnativo seguire la Nazionale, perchè la frase da titolo, la perla di saggezza, il concetto illuminante, potevano magari arrivare ai margini o ben al di fuori della classica conferenza stampa. In un mondo sportivo che navigava nella banalità dei concetti e in acque di cultura limitata, Velasco bucò le pagine e gli schermi, arrivando a catturare perfino l’attenzione degli ambienti calciofili. Ma come tutti gli amori impossibili, il calcio e chi era abitato a seguire solo quello, prima cavalcarono selvaggiamente l’onda Velasco (chi meglio di li per esprimere un parere su…tutto?), poi ne furono spaventati e nel momento in cui capirono che non era uno yes man, ebbero la crisi di rigetto, come in un trapianto mal riuscito.

Ricordo la mia prima cena con l’ambiente, a Stoccolma, alla vigilia degli Europei che sconvolsero il nostro volley. C’era Velasco e c’era il vice ct Frigoni. Ascoltai e basta. Ero l’ultimo arrivato e non potevo che umilmente respirare quell’aria nuova, cercare di osservare, capire, sapere, imparare. Ricordo la mia prima intervista a tu per tu con Lorenzo Bernardi, nell’hotel di Stoccolma che ospitava la squadra. Come poi un mese dopo ad Osaka, la prima con Paolo Tofoli, seduti sulle tribunette a parlare mentre si giocava un’altra partita. Ovvio che Julio avesse maggior confidenza con chi da anni seguiva la pallavolo, e nelle occasioni in cui anch’io ebbi modo di parlare per qualche intervista a distanza ravvicinata, c’era sempre la soddisfazione per aver ricevuto materiale prezioso.
E quando ricordava che capiva il lavoro dei giornalisti perché un suo grande amico argentino era giornalista, diceva il vero. Ma altrettanto giustamente pretendeva correttezza, anche capitava non di rado che nelle redazioni si adattessero sue dichiarazioni, cambiando le sue precise parole per esigenze varie. Ecco, questa è una cosa che non gli andava giù. Giustamente sottolineo, perchè ancora oggi spesso mi capita di battermi perchè nella titolazione, quando si cita il virgolettato, lo si facca in modo preciso e fedele.
Tornando al bentornato che ho pensato di rivolgere affettuosamente a Julio Velasco, mi è sembrato naturale coinvolgere alcuni dei colleghi con cui condivisi quei bellissimi e irripetibili anni. Con la maggior parte dei quali condivisi la spedizione di Stoccolma e poi soprattutto Brasilia e Rio de Janeiro 1990 e che ringrazio per aver accettato di scrivere la loro testimonianza per VISTO DAL basso.

COME ERAVAMO

Adriano Torre, Carlo Lisi, 1989

Giorgio Barberis, signorile  e garbato inviato de La Stampa, che conoscevo già perché ci avevo lavorato anche seguendo l’atletica (non di rado atletica e pallavolo avevano giornalisti in comune, non ero l’unico a fare l’accoppiata, che nel tempo sarebbe divenuta sempre più impegnativa). E così da Nebiolo ai vari presidenti dell’inquieta Fipav di allora, da Cova, Panetta e Lambruschini a Velasco e Lucchetta, da Carl Lewis a Joel Despaigne, i nostri mondi lavorativi s’intrecciarono cambiando sport, dalla pista allora rossa dell’atletica alla rete del volley.
Lorenzo Dallari, che conoscevo da quando era corrispondente per il basket da Reggio Emilia per il Corriere dello Sport e che si unì al mondo del volley con i servizi e le telecronache prima di TeleCapodistria, poi di Tele+ e Sky. Anche lui iniziò un percorso professionale di elevato livello in coincidenza con il boom velaschiano che poi ebbe riflessi sull’attività dei club e sulla visibilità dei campionati. In un momento di amarezza personale, volle gratificarmi con l’Oscar del Volley. Un gesto che non ho dimenticato.
Pasquale Di Santillo, è un capitolo a parte. Quel che si può pubblicamente condivider? Decenni di lavoro nella stessa azienda, un’amicizia che ha avuto modo di svilupparsi anche grazie alla pallavolo, a cui Pasquale rimase attaccato anche quando per esigenze lavorative, dovette occupare ruoli diversi. Quanti pezzi scritti… insieme a quattro mani, frutto della mia complicità nel sostenere la sua voglia di restare vicino al mondo della pallavolo. Spesso ho dovuto pentirmi di essere stato generoso, di aver aiutato tizio o caio, ricevendo poi pugnalate alle spalle ed amarezze. Ma non mi sono mai pentito, tutt’altro, di avere avuto un ruolo nella visibilità professionale che Pasquale ha potuto coltivare nel suo sport prediletto. Seguendo l’esempio della Gazzetta dello Sport, gli detti… in leasing il volley femminile, perchè oggi sembra strano ma ci sono stati anni in cui usciva quasi una pagina al giorno di pallavolo (se ne dovrà fare una ragione chi ritiene che oggi la visibilità sia aumentata…). Un’amicizia rinforzata dalle discussioni, dagli scambi di punti di vista, da un confronto che non è mai venuto meno (ok, escludendo le discussioni da bar dello sport per la Roma e la Juventus…) e che è il sale di ogni rapporto, umano e professionale.
Carlo Lisi, è stato il Caronte che mi ha traghettato nel mondo della pallavolo, ancor prima del boom velaschiano. L’addetto stampa della Fipav, nel tempo diventato capo ufficio stampa a tutti gli effetti (tranne quelli economici) di una struttura divenuta finalmente onnipresente e all’avanguardia, facendo dimenticare i tempi in cui chiamando in Fipav dai giornali per una questione urgente, ci si sentiva rispondere di telefonare il giorno dopo. Cresciuto alla scuola di Colalucci, Carlo Lisi ha speso la sua vita professionale per la Fipav, condendola con sconfinata passione e diventando per tutti, in Italia e all’estero, il punto di riferimento per quasi tre decenni. La sua storia con la pallavolo, un bel libro che come talvolta capita, ha avuto un finale amarissimo e ingrato all’inverosimile, perché nè la riconoscenza nè la giustizia sono elementi di questo mondo.
Carlo Gobbi era il decano dei giornalisti della pallavolo italiana, Gazzetta dello Sport. Un gentleman che mi ha accolto con simpatia e affetto, facendo di tutto per farmi sentire a mio agio, fin dalla prima trasferta svedese. E dopo quell’oro mi disse che ero stato fortunato: lui per anni e anni si era sorbito trasferte nell’Europa dell’Est, con piazzamenti deludenti, cibo scadente e nessuna soddisfazione. Io arrivavo e toc, subito campioni d’Europa (non sapeva allora quante altre medaglie l’Italia avrebbe vinto!). Peccato che quando sono diventato io il decano, ahimè, prima non ho voluto pubblicizzarlo perché denunciava la lunga militanza, poi ho smesso di seguire la pallavolo.
Gian Luca Pasini si aggiunse in extremis al gruppo del Brasile nel 1990, rimpiazzando Fabio Morabito che aveva partecipato alla campagna europea dell’89. Fu simpatia reciproca a prima vista. Lui mangiava pane e volley fin da piccolo, perché il papà era il presidente del Porto Ravenna, divenuto Il Messaggero, lo squadrone con Kiraly e Timmons oltre a tanti big italiani. La stessa curiosità, il medesimo ardore giornalistico. Schietto in modo a volte ruvido agli occhi di chi non lo conosce, Gian Luca è collega appassionato, eticamente impeccabile in un mondo in cui talvolta c’è chi scrive per convenienza o perché è sul libro paga. A me che lo conosco, fa un po’sorridere e un po’rabbia, quando sul suo blog leggo le accuse di rifare per qusta o quella squadra. Gian Luca tifa per la pallavolo, stop.
Insieme abbiamo condiviso partite, interviste, gesti di sensibile colleganza e macinato chilometri e chilometri in autostrada. Non dimentico quando nel temporale che accompagnò il trasferimento in aereo da Brasilia e Rio de Janeiro, ci ritrovammo…con i passaporti in bocca e l’aereo che sembrava voler puntare il suolo. O l’irripetibile viaggio in macchina senza navigatore, da Lodz a Varsavia nel 2009, dopo la vittoria europea delle azzurre. Io guidavo, lui dormiva.
Adriano Torre divenne ben presto amico e collega quasi inseparabile. Purché non gli si mettesse fretta…bastava avere pazienza. Dopo le partite, tutti noi di corsa in albergo a posare borse, macchine da scrivere e poi computer: tra 5 minuti sotto nella hall e poi si va a cena. Beh, lui il tempo di una doccia e di uno shampoo lo trovava ugualmente, meritandosi l’appellativo dei colleghi, Waiting... aspettandolo, coniato dal decano Carlone Gobbi. Scherzi a parte ad Adriano mi legano, e nel ricordo mi legheranno sempre, tanti episodi indimenticabili delle nostre trasferte, che è giusto restino nella sfera privata.
Jacopo Volpi Fu la voce della pallavolo, il telecronista che gridò il fatidico Campioni del Mondo, prima di assumere ruoli più importanti in Rai. Anche lui era a Brasilia e Rio nel ’90, quando capitava non di rado di stare allegramente in compagnia, non parlando solo di pallavolo e condividendo umorismo battute e risate con un Gian Paolo Montali che sapeva essere simpatico e divertente, sui divani delle hall e se nei paraggi c’era un pianoforte.

LA PAROLA AI TESTIMONI

Giorgio Barberis, inviato del giornale La Stampa

Giorgio Barberis

Premessa: Julio (e non Giulio, i nomi non andrebbero tradotti…) è sempre stato una manna per noi giornalisti. Mai banale, parlargli insieme significava (e significa) sempre avere un titolo servito. I ricordi positivi in un rapporto non solo di lavoro sono tanti: invece racconterò il cazziatone che mi fece.
La comitiva azzurra viaggia compatta sull’aereo che da Atene ci riporta in Italia, a Roma, dopo il trionfale Mondiale del 1994. La consueta telefonata del mattino al giornale mi ha lasciato l’amaro in bocca: “C’è poco spazio – mi dice il responsabile di turno – al massimo una notizia quando arrivi ce siete tutti sani e salvi …”. Così non mi preoccupo, parlo più con i giocatori che con Velasco. Arriviamo a Roma che è pomeriggio inoltrato, alla coincidenza con il volo per Torino manca più di un’ora. La Comitiva si scioglie. Telefono al giornale e vengo accolto con un “finalmente chiami, il direttore vuole una pagina sul personaggio Velasco. Raccontalo e fagli anche una bella intervista”. Tralascio la mia reazione e mi limito a spiegare che, a quel punto, Julio è in macchina diretto a Bologna. Mi pare improbabile (allora i telefonini erano ancora un optional di cui non eravamo dotati…) che sia possibile rintracciarlo in tempo utile. “Arrangianti”, è la conclusione.
Per fortuna ho un agenda dedicata alla pallavolo che mi segue in tutti gli avvenimenti e così recupero la ricca sequenza di “frasi da titolo” e costruisco un pezzo da affiancare alla storia dell’uomo di la Plata e della sua vita pallavolistica e non, visto che c’è di mezzo anche il fratello desaparecido. Naturalmente perdo la coincidenza aerea, ma almeno mi sentirò dire: “buon lavoro”. Non altrettanto però da Velasco che mi telefona la mattina dopo per il succitato cazziatone: “Perché hai usato frasi vecchie? Se me lo dicevi, visto che si è anche viaggiato insieme, avresti potuto scrivere qualcosa di diverso”.

Lorenzo Dallari, telecronista e inviato televisivo da Tele+ a Sky, uno dei volti storici della pallavolo

Lorenzo Dallari

La vita è fatta di corsi e ricorsi, come soleva ricordare Gianbattista Vico. Questa volta però l’amarcord ha un gusto del tutto speciale, bisogna riconoscerlo. Julio Velasco torna a Modena per allenare la squadra che lo ha reso grande e che lui ha reso grande, guidandola alla conquista di quattro scudetti consecutivi dal 1986 al 1989. Sono infiniti i ricordi che affiorano come d’improvviso alla mente, visto che quello era il periodo in cui narravo le gesta dei gialloblu per la tv che trasmetteva in esclusiva le gesta della Panini. Sono stati anni bellissimi, in cui eravamo tutti giovani e pieni di entusiasmo, autenticamente appassionati di uno sport unico come coinvolgimento emotivo e spirito di squadra. Sono stati anni bellissimi, che sono poi sfociati quasi naturalmente nel periodo d’oro della nostra nazionale, non a caso condotta a una serie infinita di vittorie proprio da Velasco, cui avevo annunciato io l’incarico in azzurro quasi per caso. Sono stati anni bellissimi anche perché la comunicazione era assai più artigianale di quella odierna, ma non per questo meno viva e puntuale. Al termine di una partita di campionato infrasettimanale aveva squillato il telefono, uno di quelli con la rondella che si girava per comporre i numeri. A quel tempo non c’erano certo i cellulari… Avevo risposto d’istinto perché ero l’unico ancora seduto al tavolo dei segnapunti dove c’era anche la postazione del commentatore e dall’altra parte del filo c’era Carlo Gobbi della Gazzetta dello Sport: “Dovresti dire a Velasco che poco fa lo hanno nominato ct al posto di Pittera”. Così ho fatto, entrando nello spogliatoio di Massimo Forlani, il bravissimo massaggiatore che lo avrebbe poi seguito in nazionale. Pare un’altra vita, lo so, ma è solo ieri l’altro. Domani invece sta per arrivare. Velasco torna nella città che lo ha adottato e che qualche anno fa gli ha pure offerto la cittadinanza. La sfida che lo attende è difficile ma nel contempo oltremodo stimolante. Vincere lo scudetto come era accaduto 30 anni fa non sarà certo facile vista la concorrenza agguerrita, però sono sicuro che si divertirà e che farà divertire un pubblico davvero unico per competenza e passione.

Pasquale Di Santillo, Corriere dello Sport

Pasquale Di Santillo

Velasco che torna a Modena non è una semplice notizia, un pezzo di apertura. È qualcosa che (ri)comincia a muoversi, un bambino diventato adulto che ritrova la strada di casa, una storia che riparte da dove era cominciata. È come portare indietro la lancetta dell’orologio, quell’orologio che fece suonare la sveglia, il decollo di uno sport capace da allora, dai quattro scudetti di Velasco sotto la Ghirlandina, di dividere il tempo, in due ère: prima e dopo Velasco, appunto. La pallavolo, almeno in Italia, è stata qualcosa prima di lui e qualcos’altro dopo di lui. I tre Mondiali, gli Europei, le infinite World League nascono a Modena e sbocciano a Stoccolma, in quel primordiale, selvaggio urlo europeo, figlio primogenito del Velasco allenatore e del Julio uomo, e della sua generazione di fenomeni allevata a tigelle e tortellini.
Già, perché Julio non è mai stato solo un tecnico. Allenare, da sempre, è un appendice, l’ultima parte del suo lavoro. Piuttosto, lui costruisce rapporti, relazioni, con gli atleti, con i dirigenti, con i giornalisti, con tutti – lo ha sempre fatto – grazie a un dono raro. Quello di saper incantare con le parole, di farsi ascoltare, alimentando l’incanto con considerazioni, concetti, idee, quasi mai sbagliate, banali. Al contrario, arriva dritto alla profondità di chi lo circonda, e così riesce a catturarlo, a rapirlo fino a farlo “prigioniero” volontario nei suoi ragionamenti.
Una dote naturale, vicina all’ars maieutica di Socrate, di cui Julio si è sempre bonariamente approfittato per portare tutti dalla propria parte. In ogni ragionamento, ogni scelta. E non a caso è sempre o quasi riuscito a raggiungere i migliori risultati possibili con i gruppi con cui ha lavorato, anche nelle sue, momentanee esperienze calcistiche. Raccogliendo consensi e considerazione crescente, in tutta la società civile del nostro Paese che gli riconosce da sempre onori sportivi e meriti culturali ben oltre la sua attività di tecnico di uno sport considerato da troppi, a torto, minore.

E se c’è un ruolo dove Julio ha faticato forse più del previsto ad essere Velasco, è stato proprio quando diventò Ct della nazionale femminile nel 1997. Eppure, anche lì, riuscì a lasciare un’eredità sulla base della quale sono stati costruiti i successi che sono seguiti. Impostando e avviando il Club Italia e imponendo scelte che allora apparvero a molti impopolari e controtendenza. Seduto su un divano di un hotel di Brno, attorniato dalla solita folla di giornalisti, alla vigilia dell’Europeo in Repubblica Ceca – chiuso senza gloria con un quinto posto – sentenziò: «Io sono per l’apertura totale alle straniere. Le giocatrici italiane, se ce ne sono di brave, il posto se lo devono guadagnare». E fu il trionfo delle donne, con l’amico Bonitta che ancora ringrazia.

Grazie di tutto Julio, grazie di esistere, di averci dato tutto quello che ci hai dato e di aver deciso di tornare a Modena da dove hai cominciato una storia meravigliosa per farne ripartire un’altra, magari fosse altrettanto meravigliosa

Carlo Lisi, capo ufficio stampa della Federazione Italiana Pallavolo nella sua epoca vincente
Carlo Lisi, 1989

Carlo Lisi
Mi sono chiesto tante volte come sarebbe stata la mia vita lavorativa se il destino non mi avesse fatto incrociare Julio. Si, parlo di Julio Velasco il tecnico che di fatto ha cambiato la storia del volley italiano, ma anche quello mondiale. Il destino ha voluto che io arrivassi ad avere il ruolo di addetto stampa degli azzurri proprio in coincidenza del suo incarico, in quella primavera del 1989 in cui la pallavolo di casa nostra stava programmando di uscire dal suo bozzolo. Forse senza neanche saperlo.
Sono anni lontani, di cui qualche ricordo si annebbia, ma è veramente nitida in me l’immagine della partenza per l’Europeo destinazione Stoccolma: la vita di tutti noi, protagonisti o addetti ai lavori, stava per cambiare strada e nessuno lo sapeva, ma credo che tutti ripensando a quelle giornate abbiano un sussulto. Personalmente partii con in tasca un biglietto aereo per il ritorno, fissato per il giorno seguente la fine della prima fase: nessuno pensava che saremmo arrivati alle finali che assegnavano le medaglie. E per quelle che valevano i piazzamenti non ci sarebbe stato bisogno di un addetto stampa. Perché al massimo a seguire gli azzurri sarebbe rimasto soltanto Carlone Gobbi. Invece proprio in quei giorni iniziava l’età dell’oro per i “martelli d’Italia” (per copiare il titolo di non mi ricordo quale quotidiano nazionale) e soprattutto Julio Velasco diventava il condottiero di una squadra che non avrebbe più avuto eguali nello sport italiano.
Da allora le trasferte diventarono sinonimo di vittorie e medaglie. Julio divenne l’uomo simbolo dell’Italia vincente, anche se per me era soltanto Giulio l’uomo con cui lavoravo spesso e discutevo di frequente, ma che aveva una dote che ho trovato in poche altre persone nella mia professione: se ti stimava ti ascoltava e poi magari faceva lo stesso di testa sua. Perché in fondo è chi ha la vera responsabilità di una cosa che ha il diritto di scegliere, anche di sbagliare. Ma sempre ascoltando.
La sua dote più grande, a mio giudizio, è la capacità di capire la sincerità e la fedeltà dei collaboratori. La pallavolo è l’unico vero sport di squadra. E la squadra non è soltanto quella che lavora in palestra, ma anche chi lavora al di fuori di essa. Di chi s’impegna con dedizione all’interesse del gruppo.
Se ripenso alle otto stagioni azzurre trascorse con la sua nazionale dovrei scrivere un libro per raccontarle. E non so se arriverà mai il momento di farlo… perché come dicono quelli bravi quello che succede in un spogliatoio non si deve raccontare fuori. Io nello spogliatoio azzurro non sono quasi mai entrato, ma nel mio ruolo ho sempre pensato di farne parte.
L’unico piccolo episodio che voglio raccontare riguarda il magnifico giorno della seconda vittoria mondiale ad Atene: mancava parecchio all’inizio della gara e nell’impianto ancora vuoto, mentre gli azzurri si stavano preparando per cercare l’ennesima impresa e vincere ancora, incrocio Giulio nel parterre che mi dice: “Dopo quattro anni siamo ancora qua, chi ce lo avrebbe mai detto…” Vicino a noi c’era Mauro De Sanctis, che con un bellissimo scatto riprese le nostre espressioni.
Negli anni ho continuato ad incrociare Velasco in giro per il mondo, ma in parti diverse del “campo”. Ed ogni incontro mi ha dato la sensazione di rivedere un familiare.
Quest’anno lui torna a lavorare in Italia ed io come tanti altri sarò felice di riprendere a seguire e raccontare il suo lavoro. Bentornato Giulio.

Carlo Gobbi inviato del giornale La Gazzetta dello Sport

Carlo Gobbi

Julio Velasco torna a Modena. Colpo da maestro di Catia Pedrini. Per spegnere l’incendio e le rovine suscitate nella tifoseria e nella città dopo l’ammutinamento dei giocatori verso il tecnico bulgaro Rado Stoytchev con la sua successiva defenestrazione, nulla di meglio per riportare calma e gesso sotto la Ghirlandina che richiamare l’hidalgo italo-argentino. Perché Velasco è rimasto nel cuore dei modenesi. Anche quando si è progressivamente staccato dalla città per seguire illusori sogni di gloria nell’ostico mondo del calcio (Lazio e Inter, non è tutto oro…) per ritornare poi al giochino sottorete che lui conosce così bene. Ci fu un altro ritorno in quella città che gli decretò gli onori del trionfo con i quattro scudetti consecutivi conquistati col Panini. Accadde a metà inizio anni duemila. Ma la società non era più quella che lui aveva lasciato, non c’era più Giuseppe Panini, il “suo presidente” come l’ha sempre chiamato. Oggi questo ritorno assume le sembianze del salvatore. La società è tornata agli splendori del passato, la tifoseria è la prima d’Italia per passione, fedeltà, competenza, Catia Pedrini ha lavorato bene fino al capriccio di volere a tutti i costi un allenatore bravo ma scomodo come Stoytchev, inviso ai due giocatori più rappresentativi, Bruno e Ngapeth, che hanno poi trascinato i compagni in gialloblù verso quella serata televisiva che rimarrà negli annali di ogni sport come un golpe dal di dentro. Colpo da maestro del collega e amico Paolo Reggianini. Chapeau!

Carlo Gobbi, 1989

Quando Velasco, al timone della navicella azzurra, si esprimeva così: “l’Argentina è la Mamma, l’Italia è l’amante”, intendeva più esattamente Modena. Anche quando lasciò la società per incamminarsi verso più aurei destini azzurri, o quando vi tornò da avversario, di club o di nazionale, al palaPanini Julio si è sempre sentito “a casa”. Logico questo suo ritorno, nel momento del bisogno, quando lui, a 66 anni suonati, è ancora saldamente sulla breccia, alla guida della squadra del suo Paese, l’Argentina. “Modena, eccomi” e per i cinquemila e oltre fedeli dell’impianto modenese, intitolato al suo presidente, ritornerà quell’amore, quella fiducia incondizionata, che ne fecero il personaggio numero uno sottorete. In nessuna città come Modena, lui, Julio, ha soltanto amici, veri, fedeli, cui è legatissimo.
Ricordiamo bene il nostro primo incontro. Avvenne nel 1986, marzo, finale di coppa Italia al PalaFiera di Forlì. Lui era lì in incognito, accompagnato, se la memoria non ci tradisce, da Beppe Cormio, che gli fu pigmalione nelle due prime stagioni italiane a Jesi, ma insieme a un dirigente modenese molto vicino a Peppino Panini. Era Leo Novi, papà di Luca, il supermega procuratore. Fu Leo, grande persona, che insieme a Pietro Peia, allora direttore generale della società gialloblù, a veicolare il nome del tecnico argentino a Panini. Di lì a poco….
Ricordiamo che ci venne presentato. Noi allora non lo conoscevamo. Fu un incontro aperto, simpatico, poche battute ma sufficienti per intuire il personaggio. Che ci colpì con questa frase: “Allenare la squadra del proprio Paese è il massimo onore per ogni tecnico”. Di lì a qualche anno, via Modena, Velasco, allenatore dei quattro scudetti consecutivi, approdava sulla panchina della nazionale. Il resto lo sapete. È nei libri di storia dello sport. Bentornato Julio in quella città che passionalmente, ma anche con tanta riconoscenza e simpatia, non ti ha mai dimenticato. E buon lavoro.

Gian Luca Pasini, al centro nella foto tra Luigi Ferrajolo e Giovanni Malagò, inviato del giornale La Gazzetta dello Sport

Gian Luca Pasini
“Oggi c’ha detto Velasco?”. La frase era immancabile quasi a ogni manifestazione in cui era impegnata la Nazionale della Generazione dei Fenomeni. Era quasi diventato un segno di riconoscimento, un modo di dire gergale che faceva comunità. La prima volta venne pronunciata da Corrado Sannucci, inviato di la Repubblica al seguito del volley per tanti anni. Era arrivato tardi e si voleva informare. Perché Velasco, comunque, diceva sempre qualcosa. Che poi sarebbe entrato nella storia per sempre. Gli esempi sono molteplici: la cultura degli alibi, gli occhi di tigre e qualli di mucca. Ma anche i balli che abbiamo ballato e che nessuno ci potrà più togliere. Il ct argentino che ha avuto la saggezza e l’intelligenza prima di vincere e poi di “cominciare” a parlare. E quelle parole hanno segnato un’epoca e anche una generazione. Certo quella dei giornalisti che seguirono quelle stagioni travolgenti della Nazionale italiana maschile. Il bello o il curioso è che quelle stesse parole hanno colpito (e segnato) altre migliaia di persone di tutte le età e di tutte le estrazioni che vissero quel tempo da spettatori. E ancora oggi a distanza di un ventennio calamitano. Forse perché non sono solo parole, ma per il contenuto e la storia che ci sta dietro.

Adriano Torre, inviato del giornale Tuttosport
Adriano Torre, 1989

Adriano Torre

Gli aneddoti più gustosi e divertenti legati a Julio Velasco purtroppo appartengono alla sfera privata (sua) e non si possono raccontare, salvo che sia lui a farlo… Per carità, niente di piccante, niente di osé, nessuna volgarità, in linea con lo stile del grande personaggio che abbiamo avuto la fortuna di incontrare e conoscere a fondo, ma ricordi ed episodi stupendi vissuti al di fuori del Palasport. Dunque chiedo scusa se non sarò originale, perché pescando tra i ricordi ho avuto la sensazione di aver già scritto (e letto…) tutto (o quasi) del personaggio Velasco durante gli anni favolosi da lui e dalla generazione di fenomeni regalati allo sport mondiale.
Però ho un ricordo particolare, del lontano 1983 in Argentina. Ero sulle gradinate del Ferrocarril, la palestra che ospitava gli incontri di volley, seduto a guardare una partita. Una struttura per noi antichissima, per gli argentini popolare e romantica. Davanti a me, una fila più sotto, un passaggio di giocatori, tecnici e dirigenti, tutti a salutare un giovane che nel frattempo parlava di volley con toni diversi da tutti quelli che mi avevano parlato di volley (escluso Silvano Prandi, ma i due grandi saggi del volley hanno caratteri e approcci differenti). Il giovane (peraltro già trentenne, ma l’aspetto era ancor più giovanile) era Julio Velasco, vice allenatore dell’Argentina tra il 1981 e il 1983. Rimasi affascinato nell’ascoltarlo, entusiasmo e intelligenza sopraffina, la gioiosità del gioco e la rigorosità del lavoro unite, ancor di più perchè mi resi conto che al di là dei ruoli, era stato sicuramente Julio il vero allenatore dei Pumas che ai Mondiali casalinghi avevano vinto (a sorpresa…?) il bronzo iridato.
Fantasie giornalistiche? Voci del popolo che sa creare le leggende? Di fatto Velasco era il secondo del coreano Young Wan Sohn, lavorava in palestra e in partita ascoltava le indicazioni dell’allenatore per poi tradurne i messaggi ai giocatori. Ma sugli spalti l’opinione era ben altra: una voce aleggiava senza contrasti e si alimentava di bocca in bocca: e si sa, vox populi…. vox dei. Secondo gli “abitanti” del Ferrocarril, il divin Velasco ascoltava, faceva tesoro e poi trasmetteva (c’è chi dice a … modo suo) le indicazioni. Per alcuni totalmente distanti da quelle ascoltate. Insomma, faceva il gioco… Storia e leggenda, di un mito per lo sport argentino, italiano e mondiale. E a noi le leggende piacciono. Così ho imparato a conoscere Velasco, uno che sa cosa fare, cosa dire, come vincere…
P.S.: Julio Velasco è stato allenatore del Ferrocarril Oeste Buenos Aires dal 1979 al 1982 portandolo a vincere quattro campionati consecutivi….

Jacopo Volpi, inviato della Rai

Jacopo Volpi

Ho un ricordo nitido dell’arrivo di Velasco a Modena. Bologna aveva vinto lo scudetto un po’ contro pronostico. La Panini di Nannini era affondata sotto i colpi di una squadra di autentici pazzi: Venturi, Squeo, Carretti, De Rocco, Barrett e il mitico Bab Babini.

Bisognava correre ai ripari, lo smacco era stato forte. Il Cavalier Giuseppe alla fine decise per un ragazzo argentino che già si era distinto a Jesi e che dal primo giorno ad  ogni intervista regalava un titolo.bArrivarono 4 scudetti in 4 anni,bmancò solo la coppa campioni ma il mito ormai era stato celebrato. Julio Velasco approdò alla Nazionale e per mia fortuna nacque una solida amicizia sorretta, credo, da forte stima reciproca. Si parlava di pallavolo, di libri, mi fece conoscere Osvaldo Soriano ed un’altra marea di scrittori sudamericani. Qualche volta si parlava anche di donne e molto di politica.Il primo campionato europeo in Svezia, la prima vittoria, le cene con lui e con tutti i colleghi erano fantastiche. Poi Rio De Janeiro, il mondiale, l’inizio in sordina ed una sconfitta devastante contro Cuba. Il giorno dopo da Brasilia si andava a Rio, poco piu’ di un’ora di aereo. Julio ed io eravamo entrambi privi di senso dell’orientamento, salimmo su un altro aereo infervorati dalle nostre discussioni e ne scendemmo appena in tempo. Mi disse una frase che non dimenticherò mai. «Vedi Jacopo, ieri Cuba ci ha massacrato, ma non vinceranno più contro di noi, hanno dato il massimo». Io annuivo ma sicuramente non mi aveva convinto. Aveva ragione lui, capitava spesso. La sera prima della prima aveva deciso di mettere in panchina Tofoli e Zorzi per De Giorgi e Giani. Ero perplesso, poi fu rivoluzione a metà con Zorro in panchina. Poi finalmente si decise a farlo rientrare, non certo per le mie opinioni ma per le sue convinzioni. Le ultime tre partite di Andrea Zorro Zorzi furono deflagranti. Arrivò il mondiale, l’ultima schiacciata di Lollo Bernardi che aveva perso il padre poco tempo prima, i 7 milioni di ascolto di Rai 2 sommati ai più di 4 di Telemontecarlo. Il rientro in Italia fu uno spettacolo.

Ricordo poi la mia più atroce discussione con Julio: ero direttore di Supervolley il mitico mensile dove hanno scritto tutti i giornalisti dellla pallavolo e avevo aspramente criticato la cacciata di Lucchetta dopo Barcellona 92 secondo me messo da parte anzitempo. Lucchetta era carismatico, forse troppo, al limite del rompi, ma era stato troppo importante per quelle vittorie ed era ancora in splendida forma. Julio non me la fece passare, arrivò in redazione a Modena e davanti ad una sbigottita Valentina De Salvo iniziò un duello più che rusticano, anche se solo verbale, di almeno 3 ore. Ognuno rimase della propria idea ma alla fine si andò a cena insieme. Le non vittorie olimpiche furono un grande dolore per tutto il popolo del volley e lui, ricco e famoso considerò finito il suo ciclo e comincio a girare tra la pallavolo femminile, il calcio, mille conferenze sulla cultura degli alibi e la filosofia del gruppo. Poi ancora volley in giro per il mondo fino alla sua Argentina. Perché l’Argentina è la mamma e l’Italia la moglie (Velasco docet).

Mai avrei pensato che sarebbe tornato a Modena, dove una volta dopo l’ennesimo scudetto lo stavo intervistando in mezzo alla folla festante. C’era molta confusione ma lui,alzando un braccio, mise tutti in silenzio. Ci mancava solo che lo facessero camminare sulle acque.

Venditti cantava che i grandi amori non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano.

Enzo Biagi invece diceva di non tornare mai dove si è stati felici.

Certo, per noi romantici con qualche anno ci vorrebbe pure la Maxicono di Magri Ghiretti e Montali, la Zinella di Bologna, il Milan di Berlusconi e magari il Messaggero di Kiraly Timmons e del vulcanico Brusi. Anche la Sisley? Ma certo, intanto chi si accontenta gode e dunque w Velasco che torna a casa.

C’erano anche…

Gianfranco Pancani, 1989
Fabio Morabito, 1989
World Cup, Japan 1989
Giovanni Rossi, Gianfranco Pancani, World Cup 1989, Japan

Ringrazio tutti gli amici e colleghi che hanno collaborato
a questo anomalo ma sentito post. Talmente anomalo che ci sono foto in cui compaio pure io (ma per fortuna, credo, ormai irriconoscibile), riemerse dall’album dei ricordi belli, quando anch’io mi illudevo che la pallavolo fosse un ambiente diverso.
E comunque, quello che di bello vivemmo, professionalmente e umanamente, non ce lo toglierà mai nessuno.

VDb

https://it.wikipedia.org/wiki/Julio_Velasco

Leandro De Sanctis

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